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Un approccio pragmatico alle cognizione distribuita

dal libro
Dalla scrittura ai social media

La nozione di cognizione distribuita è al dunque piuttosto semplice. Comunemente pensiamo che le nostre prestazioni mentali dipendano da noi, presi come individui. Se mi ricordo o meno di un appuntamento, se so certe cose che per fare il mio mestiere dovrei sapere o non le so, se guido bene o male l’automobile, se trovo la soluzione a un problema, se prendo una decisione soddisfacente, il merito o il demerito è mio, va cercato nella mia mente. In realtà non è così. Le nostre prestazioni mentali dipendono dall’interazione tra la nostra mente e il mondo circostante, cioè gli oggetti che ci circondano, gli strumenti di cui disponiamo, le altre persone con cui interagiamo.

La stessa persona, con la sua stessa mente, le sue conoscenze e le sue abilità, può avere prestazioni eccellenti in un contesto e pessime in un altro. Chi per esperienza si è accorto di questo fatto, quando gli dicono che uno specialista è molto bravo, come a voler fare una battuta chiede: “Ma dove lavora?”. Ha capito che le prestazioni di uno specialista risentono significativamente dell’ambiente lavorativo, dipendono da come questo è organizzato, dagli strumenti disponibili, dai colleghi che ci sono e dai rapporti tra colleghi. Perciò non possiamo fare affidamento solo sulle personali competenze di quello specialista. Per la psicologia credere che le prestazioni mentali dipendano dall’individuo è solo uno dei tanti casi di errore fondamentale di attribuzione, la tendenza a sovrastimare l’importanza della persona e a sottovalutare il peso delle situazioni in cui questa viene a trovarsi. In circa un secolo di ricerche si sono accumulati decine di migliaia di studi che dimostrano come la situazione conti più di quanto immaginiamo. Una coraggiosa rassegna ne ha presi in esame 25 mila (Richard et al. 2003).

Nonostante sia quasi ovvia, la nozione di cognizione distribuita si è fatta strada solo verso la fine del Novecento. L’idea che la ­nostra mente è un elaboratore che opera in isolamento e può contare essenzialmente sulle proprie forze attraversa tutta la tradizione filosofica. A lungo è stata dominante anche in psicologia e nelle scienze cognitive.

Gli psicologi cognitivi hanno stentato a rendersi conto che le prestazioni mentali sono legate all’interazione con l’ambiente, perché fino agli anni ‘70 hanno privilegiato le ricerche di laboratorio. Invece di studiare le prestazioni mentali nei contesti reali di vita quotidiana, hanno preferito farlo in situazioni artificiose in cui a individui isolati si chiedeva di svolgere compiti. Nel 1976 il libro di Ulric Neisser, Cognition and reality, inaugura l’approccio ecologico, che punta a studiare le prestazioni mentali nei contesti di vita quotidiana in cui gli individui percepiscono, apprendono, ricordano, pensano, decidono.

Con l’approccio ecologico arrivano scoperte sorprendenti. Ad esempio, negli esperimenti di laboratorio gli anziani hanno mediamente una memoria peggiore dei giovani. Andando però a studiare la memoria nella vita reale, si scopre che le prestazioni degli anziani in alcuni casi sono nettamente migliori. Ad esempio, in uno studio sulla memoria prospettica, sul ricordarsi cose da fare, gli anziani ricordavano nel 90% dei casi contro il 20% dei giovani (Moscovitch 1982). Il punto è che gli anziani, consapevoli dei limiti della memoria, adottavano strategie, come lasciare un biglietto in vista o ricorrere ad altre forme di aiuto. Ecco che s’impone con evidenza l’idea che le prestazioni mentali di un individuo non dipendono semplicemente dalla sua mente, ma da come la sua mente interagisce col mondo che la circonda.

Le premesse della nozione di cognizione distribuita ci sono già nella scuola storico-culturale russa (vedi pagina 48), in Vygotskij (1960) e Leontjev (1965), che tendono a considerare i processi cognitivi legati al contesto umano e tecnologico. La nozione però si afferma con Donald Norman (1993) e Edwin Hutchins (1995).

Norman è interessato più che altro agli oggetti, a come la loro costruzione e la loro disposizione negli ambienti può influire sulle nostre prestazioni. Things that make us smart è il titolo del suo libro del 1993, dove analizza tra l’altro pannelli di comando di cabine di pilotaggio di aerei, di navi, di impianti industriali, trovando come siano spesso mal costruiti. Già qualche anno prima con The psychology of everiday things aveva lanciato un messaggio agli ingegneri, affinché costruissero oggetti e strumenti di uso quotidiano in modo più funzionale nell’interazione con le nostre menti.

Hutchins si è interessato di più a come il rapporto con le altre persone influisca sulle prestazioni mentali, per cui parla anche di socially distributed cognition. Viene da una formazione di antropologia culturale ed è abituato a pensare che insieme le persone possono darsi organizzazioni che consentono loro di svolgere attività che non riuscirebbero a fare da soli. Si trova a lavorare per la Marina Militare e, analizzando quel che accade su una nave, si accorge che c’è un’intelligenza distribuita, grazie alla quale la nave può essere pilotata. Il titolo del suo libro è Cognition in the wild, per sottolineare l’approccio ecologico, lo studio della mente nel suo ambiente naturale, come su una nave dove tanti ­pensano assieme.

Se ragioniamo nell’ottica della cognizione distribuita, afferriamo subito che le nuove tecnologie della comunicazione, Internet in particolare, aprono prospettive assai promettenti. Consentono di potenziare enormemente le nostre prestazioni mentali. Rapidamente possiamo consultare un dizionario per controllare i significati di una parola, possiamo documentarci sulla biografia di uno scrittore, ragionare dati alla mano sull’andamento di un mercato o passare in rassegna la recente letteratura scientifica su un argomento.

Consideriamo un’attività come quella medica. Tradizionalmente il sapere di un medico è legato agli studi che ha fatto e all’aggiornamento che porta avanti studiando per conto proprio, andando ai congressi, partecipando a formazioni. Oggi può accedere a un motore di ricerca scientifico e, se è sufficientemente abile, in breve tempo consultare linee guida o gli ultimi sviluppi della scienza relativi a un caso di cui si sta occupando.

Se è impegnato nello screening mammario, può servirsi di un software per calcolare la probabilità che una donna ha di avere un cancro al seno a prescindere da ciò che fa vedere la mammografia. Si tratta di un dato essenziale per la valutazione che gli si chiede di fare, ma la sua mente da sola, “disincarnata” come dice Norman, non riuscirebbe mai a calcolare quella probabilità. Dietro il calcolo che fa il software ci sono modelli matematici e complicati algoritmi che i ricercatori hanno costruito. A lui basta inserire le informazioni che raccoglie dalla paziente e ha il dato della probabilità: la sua mente è diventata molto più potente.

Quando il medico adopera più farmaci contemporaneamente, per la sicurezza del paziente deve chiedersi se non ci siano interazioni tra questi farmaci che possono risultare dannose. Certe interazioni minacciano la vita stessa. Oggi a disposizione del medico ci sono software, costantemente aggiornati in base ai dati della letteratura scientifica, che segnalano le interazioni. Basta digitare i nomi dei farmaci. Tenere a memoria tutte le interazioni note è un’impresa davvero ardua e oltre tutto è poco sensata, visto che le informazioni sono accessibili in qualsiasi momento.

Le tecnologie della comunicazione in medicina sono di aiuto anche per problemi più semplici. È vantaggioso, ad esempio, avere sempre a disposizione informazioni sugli esami, le procedure e altre attività. Se devo decidere qual è l’esame diagnostico più appropriato per rispondere a un quesito clinico, devo conoscere sensibilità e specificità dei vari esami in quel caso, devo sapere cioè qual è la probabilità statistica che un esame mi faccia scoprire ciò che m’interessa e qual è la probabilità che mi dia falsi negativi e m’induca in errore. Tabelle con sensibilità e specificità degli esami caso per caso consentono al medico di fare scelte diagnostiche appropriate, semplicemente accedendo a una pagina dal computer o dal tablet.

In medicina può essere di grande aiuto anche il confronto tra colleghi, che pure le tecnologie della comunicazione possono favorire. Ad esempio consentono di chiedere un parere a distanza a un centro superspecialistico o di inviare immagini di esami radiologici o istologici e confrontarsi sulla loro interpretazione.

Nonostante i vantaggi che evidentemente possono derivarne, in medicina tecnologie della comunicazione e cognizione distribuita restano sottoutilizzate. Gli ostacoli sono soprattutto culturali e in buona parte legati al modo tradizionale d’intendere la competenza professionale.

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In medicina c’è la tendenza a considerare le competenze alla stregua di un possesso personale. Questo modo di vedere implica una serie di convinzioni, che, non appena si comincia a ragionare in termini di cognizione distribuita, finiscono per essere ribaltate. La cognizione distribuita richiede di cambiare paradigma, di passare a una nuova concezione, in cui le competenze sono distribuite dinamicamente tra mente del professionista e ambiente, non sono le sue.

Cambiare paradigma è difficile. Forti resistenze impediscono di passare dall’idea che la competenza sia un possesso personale all’idea che è distribuita dinamicamente nel rapporto del professionista con l’ambiente.

I medici tendono a restare attaccati al paradigma del possesso personale, soprattutto perché così pensano di salvaguardare la loro “faccia” professionale, si sentono più sicuri e hanno buoni argomenti per rassicurare pazienti e altri utenti. Del resto i pazienti in questo li rinforzano. In genere confidano più sulla bravura del singolo che sul team o sull’organizzazione. Facilmente poi guardano con sospetto al lavoro di studio, di documentazione, riflessione, come se la bravura implicasse sapere in partenza quel che c’è da sapere.

I pazienti sono spesso i primi a non comprendere la nozione di cognizione distribuita. A volte, anche se l’afferrano in altri ambiti, la rifiutano nel caso delle cure. Si sentono più sicuri a pensare che a curarli è un’intelligenza “disincarnata”, anziché una calata in un contesto di vita reale. In fondo l’intelligenza “disincarnata” sembra più stabile, più solida e affidabile. Se mi sono messo nelle mani di un grande professionista, posso stare tranquillo. Peccato che la mente sia quel che è e che le sue prestazioni siano contingenti e legate al rapporto con l’ambiente.

D’altra parte vari ostacoli rendono difficile per i medici passare al nuovo paradigma: difetto di mentalità scientifica, difficoltà di dialogo, carenze organizzative, barriere linguistiche, ecc. A ben guardare, il paradigma della distribuzione dinamica è piuttosto impegnativo e richiederebbe di rivedere seriamente la formazione dei professionisti della sanità.

Il paradosso delle resistenze al cambio di paradigma

Le resistenze a quel cambio di paradigma che in medicina consentirebbe di sfruttare la cognizione distribuita sono un fatto paradossale. Oggi infatti ci sono varie pressioni sociali che spingono ad abbandonare il paradigma del possesso personale per passare a quello della distribuzione dinamica.

• Progressi della medicina.  La crescita esponenziale della ricerca scientifica, la crescente necessità di rifarsi a evidenze, la formazione di centri specializzati di eccellenza, la caratterizzazione di nicchia delle patologie fanno sì che il medico da gestore dell’attività clinica, che cala nella pratica le conoscenze mediche in suo possesso, si trasformi piuttosto in mediatore tra polo clinico e polo scientifico. Diviene un interfaccia tra il contesto in cui il paziente va concretamente gestito da una parte e dall’altra la tradizione scientifica cui rifarsi e i centri di eccellenza con cui rapportarsi.

• Accountability.   I professionisti della sanità sono chiamati sempre più a rendere conto pubblicamente del proprio operato e a dimostrate di erogare servizi di standard adeguati. A chiedere conto sono: l’opinione pubblica (più istruita, più informata, meno riverente, avvezza al benessere, intollerante all’incertezza, sotto l’effetto dei mass media, ecc.), i politici (responsabilizzati a loro volta dall’opinione pubblica e dai mass media e alle prese con i problemi economico-gestionali), i mass media, che si ergono a custodi del welfare state.

• Crescente complessità del sistema sanitario.  Il medico diviene sempre più parte di un sistema complesso e le sue prestazioni dipendono più dall’organizzazione del sistema, da come egli vi si inserisce e dalla capacità di mettere il paziente al primo posto e aiutarlo a fruire del sistema. Se non opera così, se mantiene l’atteggiamento paternalistico e accentratore del passato, oggi il medico abbassa gli standard delle proprie prestazioni a livelli inaccettabili, compromette la sicurezza dell’assistenza sanitaria e fa correre e corre rischi.

• Cambiamenti nel rapporto con i pazienti.  Oggi i pazienti sono più informati e al tempo stesso ancor più da educare, autonomi, da lasciare liberi di autodeterminarsi e al tempo stesso da aiutare e guidare nelle loro scelte. Queste contraddizioni non sono facili da gestire finché si resta nel paradigma del possesso, in quanto questo va di pari passo con i tradizionali modelli asimmetrici e autoritari di rapporto col paziente. Per il fatto stesso di accentrare in sé competenze definitive e risolutive che lo rendono all’altezza della situazione, il medico guida e il paziente non può che seguire docilmente. Il paradigma della distribuzione dinamica permette di conciliare le esigenze contraddittorie, in quanto il medico è orientato a scoprire, conoscere e risolvere volta volta i problemi e può coinvolgere il paziente nell’impresa. Tra loro permane un’asimmetria, che però è ridotta, in quanto entrambi sono in un cammino: il medico traina, fa da capofila, ma non c’è chi è già arrivato e chi deve arrivare.

Anche il diritto non è di aiuto. Si basa sulla responsabilità individuale, cosa che mal si accorda con la cognizione distribuita. Se un medico commette un errore e si va in giudizio, il diritto ha bisogno di credere che l’errore è del medico. Entra in uno stato confusionale, se cominciamo a dire che l’errore va cercato nel rapporto tra la mente del medico e l’habitat naturale in cui questa mente si è trovata a lavorare.

La medicina non è l’unico settore in cui si stenta a sfruttare le potenzialità della cognizione distribuita. Dove più, dove meno una certa resistenza c’è e le ragioni sono sempre culturali. Basti pensare all’incredibile vicenda dei casi di bambini dimenticati in macchina. Sappiamo benissimo, perchè le ricerche scientifiche non lasciano dubbi a riguardo, che si tratta di normali errori della nostra mente, semplici lapsus. Sono dovuti alla struttura stessa della nostra mente, una struttura che per altro è ottima, ma che ha i suoi bug, come tutti i sistemi ottimi. Ci sono voluti tanti sventurati episodi prima che qualcuno arrivasse a pensare che poteva essere utile un allarme, come quelli che sulle auto abbiamo per rischi al confronto banali. Che cosa ha frenato? L’idea che la mente di un uomo deve farcela da sola.

La cognizione distribuita presenta un altro serio problema: può rivelarsi controproducente. Norman all’inizio del suo Things that make us smart, lo dice chiaramente riferendosi al rapporto mente-tecnologia.

Ho due notizie da darvi sulla tecnologia: quella buona e che può farci intelligenti, ed effettivamente lo ha già fatto […] Ma… la cattiva notizia è che la tecnologia può renderci anche stupidi.

Torniamo al caso della medicina. È vero che i medici hanno la possibilità di consultare procedure, linee guida, letteratura scientifica o di usare software. Devono però saper utilizzare al meglio questi strumenti, altrimenti rischiano di trarre poco giovamento da questo lavoro o addirittura di finire fuori strada.

Il problema si pone ancora più seriamente quando è il paziente a documentarsi sul web. Molti medici temono questa evenienza, perché si trovano a dover discutere di cose che a volte sono assurde.

Anche il dialogo con gli altri può essere controproducente, così come può migliorare le prestazioni mentali. È ingenuo pensare che il confronto, la discussione a due o di gruppo, porti sempre a conclusioni migliori del lavoro mentale fatto da soli. Le ricerche scientifiche sul lavoro di gruppo, che ormai hanno un secolo di tradizione, mostrano chiaramente che il dialogo richiede accortezza.

Negli anni ‘60 Robert Zajonc, riprendendo decenni di ricerche precedenti con risultati contraddittori, ha chiarito che c’è differenza a seconda dell’impegno intellettivo del lavoro svolto assieme. Se portiamo avanti un’attività meccanica, automatica, farlo assieme agli altri quasi sicuramente migliora le nostre prestazioni. Se però siamo impegnati in un’attività intelligente, le prestazioni di solito peggiorano, tanto da far concludere che una testa sola può essere meglio (Hackman e Morris 1978; McGrath 1984; Littlepage 1991; Tindale 1999).

La cosa interessante è che lavorare assieme agli altri a un compito di intelligenza potenzialmente è meglio, può farci rendere di più. Di fatto però, quando si dialoga, accadono molte cose che possono farci rendere meno. L’ansia sociale porta le menti dei singoli a funzionare male, l’informazione non circola a dovere e assieme si prendono vie sbagliate che allontanano dalla conoscenza e dalla soluzione dei problemi, facendo cadere anche in gravi errori.

A voler essere pragmatici, la conclusione è chiara. Abbiamo davanti grandi potenzialità. Tuttavia occorre che le persone siano individualmente più abili nell’uso delle tecnologie, nell’accesso alle informazioni e alla conoscenza. Quelle abilità che a scuola dovremmo sviluppare per fare didattica con i media (vedi pagina 119) andrebbero sviluppate per la vita e per le professioni.

Dovremmo anche preoccuparci di gettare le basi per favorire l’intelligenza collettiva. Le persone dovrebbero essere formate a gestire relazioni e lavoro di gruppo in modo da evitare tutte quelle perdite di processo che portano un gruppo a rendere meno del singolo. Non fare queste azioni e aspettarsi che magicamente le tecnologie e i contatti con gli altri ci rendano più intelligenti è nient’altro che ingenuità.

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